Ci sono vigne che si ereditano, altre che si scelgono. I Poderi Bricchi, tra Castel Rocchero e Acqui Terme, appartengono a questa seconda categoria: una scelta di lungo corso, fatta nel 1969, per affermare un’idea diversa di produzione.
Una collina alta, scoscesa, all’epoca incolta e da sistemare, ma capace di esprimere il potenziale delle varietà coltivate da Scarpa. Fu Carlo Castino, giovane enologo allora da poco in azienda, a vedere in quella collina il luogo giusto per costruire un’identità agricola solida e indipendente – con l’obiettivo di chiudere la filiera, coltivare direttamente le uve, lavorare in equilibrio con la terra.
Tra i 350 e i 400 metri di altitudine, su suoli sabbiosi da disgregazione di tufo alternati a marne calcareo-argillose, con esposizioni ampie da Nord-Est a Sud-Ovest, Poderi Bricchi è un vigneto di venticinque ettari a corpo unico, coltivato secondo un’antesignana logica di zonazione già negli anni Settanta: non solo Barbera – varietà guida di Scarpa – ma anche Ruchè, Dolcetto, Brachetto, Moscato, Timorasso e Freisa.
Da qui, nel 1974, è nata La Bogliona: la prima Barbera d’Asti Superiore firmata Scarpa, emblema di un nuovo approccio alla varietà e alla longevità. E anche I Bricchi, Barbera d’Asti DOCG che porta il nome della tenuta e ne racconta l’identità varietale.
Una vigna, un laboratorio, una visione – ma, prima di tutto, una scommessa.
Carlo, come nasce il vigneto di Poderi Bricchi?
Nel 1969, con mio padre e mio zio, abbiamo acquistato questi terreni tra Castel Rocchero e Moirano – fu un impegno finanziario e umano non indifferente.
Poderi Bricchi era un vigneto a corpo unico di venticinque ettari, ma all’epoca era tutto da sistemare: scosceso, incolto, difficile da lavorare. Mio padre veniva da un’agricoltura arcaica ma precisa – era il tipo che non voleva che si cimassero le viti o che si diradassero i grappoli. Però aveva rispetto per la terra, e ci ha aiutato moltissimo a rimetterla in sesto.
Che impatto ha avuto per Scarpa?
Enorme – è stato un grandissimo elemento di visibilità e miglioramento. Prima ci si appoggiava a conferitori, con i Bricchi abbiamo potuto coltivare tutto da noi. E abbiamo capito che lì, in una fetta di circa tre ettari, la Barbera veniva diversa – quel terreno dava qualcosa in più. Oggi è facile fare un buon vino, con il clima che c’è. Ma per distinguersi, devi fare un vino che ha una voce sua. E la Barbera dei Bricchi ce l’ha – La Bogliona e I Bricchi ne sono la prova.
Come si è deciso di impiantare anche varietà diverse dalla Barbera?
Alcune per convinzione, altre per necessità. La Freisa era un vitigno un po’ dimenticato, ma avevamo il terreno giusto. Il Dolcetto funzionava bene, poi ha perso popolarità. Il Ruchè… è stato un azzardo: avevo 2000 metri sabbiosi e ci ho provato. Mi sono detto: o va o non va. Ed è andata. L’importante era non metterlo su suoli troppo ricchi, altrimenti ti esplode e non lo controlli più. Di Brachetto, invece, avevamo un ettaro – è un vitigno delicato, che ha vissuto alti e bassi, ma che dà un gran bel vino.
Come avete studiato i suoli?
Ci siamo affidati a gente esperta. Ho coinvolto l’ingegner Callegaro, amico mio, e tramite lui ho portato in azienda professori dell’Università di Pisa, come la dottoressa Bargiacchi e il professor Miele. Con loro abbiamo fatto analisi pedologiche su ogni appezzamento: sabbie da disgregazione di tufo, magre, drenanti; poi zone più argillose, più fresche. Ci hanno aiutato a capire dove impiantare cosa, e a interpretare meglio ogni parcella.
Come si tenevano fertili quei suoli così poveri?
Letame, prima di tutto. All’epoca si trovava ancora, grazie alle stalle della zona. Oggi Silvio usa sovescio e concimi organici. Ma lì bisognava arricchire, perché le colline sono soggette a dilavamento. In fondo trovi viti rigogliose, in alto piante magre. È così anche in natura: c’è chi nasce nel posto giusto, e chi no. Ma bisogna sempre capire chi ha bisogno di cosa – la vigna va amata, come il vino!